Pasquonzata logotestadue
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(dal
21.1.2007)

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Rocco Futia, Leonardo Pasquonzo (quasi illustre),
romanzo a episodi, Messina, Lippolis 2005.
 


 LE NOVE TELE DI FRANCESCO NANIO


«Dopo il matrimonio, Franci Nanio si dedicò solo alla ritrattistica. Così videro la luce ben nove dipinti, compreso uno in cui la Venere di Krilonia appariva… col pancione! Che sollecitudine! Evidentemente il secondo marito, geniale quanto il primo, aveva pensato alla possibilità di una gravidanza e… ad un erede maschio. Ognuna delle nove tele (olio su tela di pregio!) fu codificata con un bel titolo e tanto di numerazione in stretto ordine cronologico.

 

Il primo lavoro passò alla storia della pittura gnomellina come L’ideale. E invero l’artista confidò ai più intimi che la scelta era dovuta al fatto che Firmina gli aveva suggerito l’idea, nella convinzione di essere… la donna ideale.

 

Il secondo ebbe il titolo di La signora del Mirtillo, senza che Infirmè (ora Nania, per acquisizione del cognome di Franci) interferisse in alcun modo. Il pittore aveva inteso (affermò pubblicamente in occasione della personale che fu allestita a sorpresa nel Galazzetto delle Mostre) rendere onore ad una “dama singolare”, senza fare il nome di Firmè. Ma perfino i più bacchettoni ne scorsero la stretta somiglianza.

 

La terza opera (che in un primo momento doveva essere l’ultima di una trilogia, come disse il genio della pittura sorrognina) rappresentava Firmina all’atto del bacio (in controfigura appariva lui, con lineamenti alquanto diafani): Il bacio rovente fu il titolo prescelto dal Nanio (o da Infirmè stessa, come più d’uno pensò).

 

La quarta (“tirata fuori” dopo nove mesi di fatica, si glorificava Franci) fu ritenuta, poi, un vero capolavoro: Firmè era raffigurata come una grande dama barocca, con lunghi e capricciosi riccioli dorati, con abiti finemente rococati, la mano sinistra dietro la schiena e la destra nascosta da un ventaglio tutto fiori, con uno sgargiato, ma naturale sorriso da infante dei primi del Settecento, con le guance ben colorite e rotonde, eccetera, eccetera. Il titolo dovette essere per forza nobiliare: La dama della compagnia, visto che il Franci (mille e una volta genio, per tutti gli stregoni del pennello!) ebbe la furbizia di piazzarla al centro di una schiera di donzelle miniaturizzate…

 

La quinta (udite, udite, imbianchini da strapazzo!) fu iniziata quando il Nanio ebbe un’ispirazione fulminante: poteva rifare la Maja desnuda di Goya! Naturalmente, a modo suo! Ciò che venne fuori è ancora oggi una mezza meraviglia: Firmina seminuda – quadro aristocratico fra altri blasonati – è appeso nell’ampio salone della bella casa, dove la Venere e il genietto della pittura vivono. La tela, invero luccicante come poche, è circondata da una cornice lamellata, in argento e oro, spessa diciotto centimetri e larga almeno ventiquattro. Due grossi ganci, ben fissati alla parete dal mastro battichiodi, sorreggono la pesante opera, che solamente i più fortunati possono ammirare. Il carico, in realtà, come più d’uno ha onestamente osservato, dipende certo dal pancione della dolce attesa, ma soprattutto... dalle tette penzoloni di Firmina, che giganteggiano rispetto a tutto il resto, venendo ad occupare un ampio triangolo immaginario col vertice capovolto e allungato al di sotto del pube. Tuttavia, qualcuno nota che le tette sono disposte come due ellissoidi pressoché speculari nel punto mediano della tela, le cui dimensioni – cornice esclusa – sono esattamente trecenovantasei per duecentosettantanove.

 

Tutte le volte che spiega il significato agli amici, il pittore non riesce a controllare la vergogna che prova, e forse anche l’imbarazzo: alla fin fine è più che legittimo supporre che Firmè non ne sia stata mai entusiasta, quantunque consapevole che il secondo marito abbia voluto rendere il giusto omaggio al suo pregio più evidente.

 

La sesta tela fu il risultato di un estenuante lavoro sperimentale. Del classico di Francesco Nanio rimaneva solo l’espressione; il resto era un vero e proprio azzardo dei pennelli e della mano.

 

Il tema scelto fu quello di Firmina... in atto di preghiera. Non poteva mancare alla collezione, perdiana! Franci rappresentò la moglie in posizione genuflessa, vista di lato e ben in prospettiva, col velo sui capelli, il libro dei versetti aperto e adagiato sul palmo della mano sinistra, con la destra pronta a girare le pagine giallastre, le labbra socchiuse che facevano intuire le parole del pentimento o dell’invocazione del perdono.

 

La ribalda fu il titolo dato al dipinto, dal momento che Francesco Nanio immaginava che soltanto un atto di controbaldanza poteva mutare la discendente Degli Agaponi da ipocrita e liquamosa mirtillina... in devota “vergine delle gocce”, come sintetizzò l’artista del ventiquattro in un occasionale colloquio con Cecè Acquarugia, celebre critico di Calabria Ultra Prima (il quale, passando da un olio all’altro, per “gocce” intese un’allusione a “tette”).

 

Firmè, d’altronde, aveva così gradito l’attribuzione di un’aureola di riscatto che si soffermava per ore intere ad ammirarsi, specialmente quando era sola in casa.

 

La settima trovata di Francesco Nanio fu dedicata a se stesso. Ormai riteneva di aver imparato quasi compiutamente… “il metodo dello specchio”!

 

La tela (alla fine un autoritratto) lo raffigurava con una tavolozza inclinata nella sinistra e appoggiata sull’avambraccio, un pennellino fra i denti (serrati come quelli di un asino in bizza, e non si capiva se per rabbia o per dolore), il pennello medio nella destra, in distinta tuta da atelier, sacripante! Abbondavano il rosso pompeiano per lo sfondo, coperto qua e là, a caso, con macchie di ciano. Il profilo del viso era luminoso per la presenza del giallo oro attenuato dal bianco.

 

La figura, ben proporzionata e ribaltata orizzontalmente rispetto a quella riflessa nello specchio, era alta e un po’ rigida, ma con un’espressione di forza che lasciava incantati. Il pittore ne andava oltremodo orgoglioso: “tanti piccoli elementi in un solo parallelepipedo...”, sosteneva per spiegare il significato del quadro, alludendo alla sua abilità nella grafica tridimensionale. Il titolo dell’opera fu L’estatico, molto adatto, secondo il Nanio, a simboleggiare la natura contemplativa e il rapimento dell’uomo.

 

L’ottava tela fu, per necessità, dettata dall’attesa di un erede, visto che in Firmina seminuda la mogliettina era già “rotonda”. L’età di Firmè permettendo, ovviamente.

 

Una ispirazione particolare lo guidò nella fiabesca rappresentazione di un grande giardino ricco di alberi e fiori di ogni specie, e, decentrato appena, sulla destra della scena, di un superbo enfant prodige in perfetto stile post-rinascimentale. Sullo fondo, poi, erano almeno dodici fanciulle in lunghi abiti nobiliari del Settecento, intente a giocare a mosca cieca.

 

Oggi è superfluo osservare che i colori furono trattati “alla fiamminga” (come ha ben precisato il Nanio, in tono petulante, ai curiosi e ai principianti).

 

Il titolo dell’opera (che campeggia accanto a L’estatico) è duplice: L’enfant tardif (toh!, in francese) e, più sotto, El niño retrasado (in eloquente spagnolo). In essa si coglie l’esplicito riferimento al figlio desiderato.

 

La nona ed ultima opera non poteva che essere… un’incompiuta! Un’incompiuta dello stile inconfondibile del Nanio, e della miscelatura dei colori e del tratteggio. Un’incompiuta del falso barocco e l’assaggio di un mezzo boccone di modernità. Invero, classico e moderno si confondevano in tutti i sensi, però senza che l’uno prevalesse sull’altro.

 

Firmina rubiconda fu il titolo adatto alla tela. Franci aveva rappresentato la nobile De’ Pompetti in mezzo a un campo di papaveri il cui riflesso le arrossava il viso fino a farlo smelagranare.

 

Poteva essere davvero un capolavoro (“il capolavoro del Nanio”, come disse più tardi Cecè Acquarugia, grande esperto in materia). Mancava solo un pizzico di ciano (più del verde che del blu), e forse un tantino di magenta. Per avere del moderno, tutto sommato, mancava qualcosa della geometria frattale e la maggior parte delle macchie non era stata curata a dovere. Ma l’eminente critico non manifestò disprezzo per l’azzardo tentato dal pittore sorrognino. In fondo, l’idea era giusta: sperimentare il tratto dei macchiaioli toscani e degli impressionisti francesi, pur conservando i rapporti di tono dei rinascimentali italiani e dei fiamminghi!

 

E se a Francesco Nanio non riuscì di dare smacco agli espressionisti, agli impressionisti puri e alle avanguardie, fu solo... per miracolo!»

  Da: Rocco Futia, Leonardo Pasquonzo (quasi illustre),
romanzo a episodi, Messina, Lippolis 2005, pp. 201-206.

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