La sfida del ricordo nel Carme di Febbraio di Rocco Futia
Il Carme di Febbraio di Rocco Futia, ispirato dalla prematura scomparsa di Achille Pittari, è concepito alla stregua di una cronistoria del dolore di una collettività di fronte ad un simile lutto.
La struttura all’interno della quale si inseriscono le sette liriche appare unitaria e consequenziale. I singoli componimenti, benché indipendenti gli uni dagli altri, raggiungono maggiore forza espressiva se analizzati nel complesso dei rimandi semantici e formali che li legano in una sorta di relazione di propedeuticità. Partendo da un simile approccio all’opera, ovvero valutandola nella sua globalità, emerge con chiarezza come alla prima lirica venga affidata una funzione proemiale. Essa ha il compito di introdurre il tema centrale della raccolta, vale a dire la volontà dello scrittore di rendere omaggio alla memoria del giovane scomparso e di dar voce alla sofferenza dei congiunti. Il suo interesse, tuttavia, non risiede esclusivamente in questa finalità preparatoria. Lungo i suoi venti versi si snodano, infatti, sebbene solo in germe, pressoché tutte le isotopie fondamentali del volumetto. Conviene, dunque, soffermare l’attenzione su alcuni punti. Il distico iniziale
Retaggi quotidiani
e durevoli in cima alla torre della piazza
crea un’impressione di immobilità totale. Le parole chiave, “quotidiani” e “durevoli”, vicine nella successione sintattica, ma separate dall’enjambement nella disposizione metrica, vengono messe in rilievo dalla collocazione rispettivamente al termine del primo verso ed all’inizio del secondo, evocando una sensazione di inerzia ed eternità. All’immagine statica qui offerta dal limitato raggio visuale subentra, nella strofa successiva, un’impressione di grande vastità spaziale e di dinamicità resa dal volo dell’aquila
che inclina
verso invisibili pinnacoli
e scende dai colli
splendenti a tramontana.
Questo contrasto inaugura la serie di antitesi che percorrono l’intero Carme, conferendogli un’organizzazione binaria. La prima opposizione ruota intorno alla coppia vita-morte. Se i motivi dell’aridità e del freddo connotano, in negativo, l’esistenza umana - si pensi, ad esempio, alla metafora “l’inverno dei mortali” (I), ed ancora all’ossimoro “spazi siderali / inariditi” -, la morte assume, invece, all’interno dell’opera, una duplice accezione. Da una parte, essa rappresenta il raggiungimento della vita eterna. Vi si riferisce, dunque, nei termini di “primavera verdeggiante” (I) e di “pianura più grande” (V). Dall’altra, significa distacco, abbandono, sofferenza ed è, pertanto, associata all’oscurità ed alla notte. Sono emblematici, in merito, versi come
prima che la notte
renda effimera la sorte (II)
ed ancora,
le gocce di rugiada
posate dalla notte nel campo dei morti (V).
Anche la notte, tuttavia, si spoglia, in qualche occasione, del tradizionale senso di ostilità attribuitole per divenire complice ed alleata dell’animo umano. L’oscurità ed il silenzio permettono di percepire le voci, i sentimenti, i ricordi che emergono dal profondo, come illustra il verso conclusivo della quarta sezione:
e a notti che raccontano l’amore.
Il secondo binomio semantico sul quale si regge la raccolta è quello composto dai termini silenzio-parola. Lungo le sette liriche del Carme si avverte costantemente la drammatica tensione tra due mondi che appaiono inconciliabili eppure indissolubili. Si pensi ai versi:
la primavera verdeggiante
dopo l’inverno dei mortali (I)
sul ponte che porta di là (II)
oscillando fra due mondi
che la notte
non potrà separare (IV).
Dalla coesistenza tra due realtà, quella tangibile e quella ultraterrena, così lontane eppure così intimamente correlate tra loro, nasce l’esigenza di stabilire un contatto, che si esprime, appunto, nel contrasto silenzio-parola. Questa necessità di comunicazione irrompe con forza nell’opera, attraverso la costante iterazione dei due lemmi lungo i 236 versi di cui si compone. Basti pensare che il vocabolo “parola” (nella sua forma singolare e plurale) viene utilizzato per ben otto volte, seguito dal termine “silenzio” (anche questo variabile nel numero), ripetuto in cinque occasioni. Significativa è anche la loro presenza in alcuni dei titoli delle liriche, che possono considerarsi delle vere e proprie chiavi di lettura poiché sintetizzano il valore semantico dei componimenti. Mi riferisco alla seconda sezione, intitolata “Ancora una parola”, ed alla quarta “L’elogio del silenzio”. Questa opposizione si traspone, poi, nel diverso atteggiamento mostrato dai genitori di fronte alla perdita di colui che il poeta definisce:
rondine intrepida
che agognava il volo dell’aquila (V).
Il padre sceglie il percorso della parola, poiché questa assume un valore particolare, diviene veicolo e sinonimo di presenza, del perdurare del ricordo di fronte al potere distruttivo dell’oblio. In quest’ottica si spiega il suo peregrinare
in mezzo ai luoghi del paese
e degli amici (V),
parlando del figlio
con voce abbondante
[...] gagliardo in un anfiteatro di apoteosi
e di vanto,
[...] a rammemorare virtù
senza una sola macchia giusta,
[...] col nome più amato sulle labbra
e fra le mani una storia
intoccabile (VI).
Ma la parola diviene anche un mezzo di sfogo, un debole e fugace barlume di consolazione nell’oscurità del dolore. Essa è
quiete dell’inquietudine del cuore (IV).
L’apparente semplicità dell’ossimoro cela, in realtà, un’inaspettata densità di significato. Il contrasto tra la brevità della forma e la ricchezza e profondità del contenuto fa sì che il messaggio emerga con maggior forza: la parola, in quanto affermazione della presenza, è l’unico rimedio capace di riempire il vuoto, di lenire la sofferenza, di rendere più sopportabile il peso dell’“invisibile catena nel cuore di padre” (VI). La madre reagisce, invece, in maniera diversa, quasi opposta. Vive il dolore per il lutto in modo più intimo, ma anche più rassegnato. La realtà materiale diviene, per lei, priva di ogni significato. Anche le parole si svuotano del loro valore denotativo e connotativo, perdono ogni capacità comunicativa, le appaiono
[...] vane,
fragili
come una spiga nella tempesta,
figlie dell’effimero (IV).
Ogni tentativo di verbalizzare i propri sentimenti sembra dunque futile, destinato al fallimento. L’alternativa è il silenzio, il rifugio nell’intimità e nella preghiera. Tale atteggiamento non va, però, interpretato come una resa di fronte alla forza devastante della sofferenza. La donna non si consegna al tormento, ma lotta
[...] prode
come nessun guerriero al mondo,
raccolta nella sua preghiera
come una sentinella del borgo
dove le pietre hanno fermato il tempo (VI).
Il silenzio, tuttavia, in quanto accettazione dell’assenza, potrebbe minare la persistenza del ricordo. Per impedire che ciò accada, la mancanza della persona fisica è compensata da segni. Si legge, ad esempio, nella prima lirica:
il tuo volto
amabile prima e dopo la tempesta
tornerà puro
in fondo al cuore,
e nella seconda:
solo la mano di tua madre
avrà una brezza calda dal tuo viso.
A questi elementi si attribuisce, dunque, la possibilità di proseguire un colloquio che, nonostante lo strazio, si vuole mantenere in vita. La necessità di comunicazione è, inoltre, tradita dalla forte presenza dei soggetti lirici all’interno del discorso poetico. Da questo punto di vista, è possibile rintracciare nel Carme tre nuclei. Il primo, costituito dalle liriche I e II, si caratterizza per la predominanza della seconda persona singolare, identificata con il giovane scomparso. Ricorrono, dunque, le apostrofi:
Tu,
nel cielo vermiglio della nuova aurora (I),
e, ancora, gli aggettivi possessivi:
Solo la mano di tua madre
avrà una brezza calda dal tuo viso,
e tuo padre
ancora una parola (II).
Il secondo nucleo si distingue, invece, per l’irrompere del soggetto emittente, che si esplica nella prima persona plurale. L’uso del “noi” è indicativo del fatto che il sentimento a cui Futia dà voce è il dolore, non di un singolo individuo, ma di una collettività. All’interno di questa sezione - accanto alle poesie terza, quinta e settima - va collocata anche la quarta lirica, sebbene in questa, diversamente dalle altre, il mittente rimanga sottinteso. Infine, la sesta lirica forma un nucleo a parte contraddistinto da un ritorno al “tu”. Cambia, tuttavia, l’interlocutore cui esso si riferisce: il destinatario, adesso, è il padre. Anche in questo caso, l’uso dell’apostrofe diventa il mezzo più efficace per conferire a quella figura una posizione di primo piano. Ognuno dei cinque periodi di cui consta il componimento si apre, dunque, con una concitata invocazione:
E tu, vegliardo,
parli di lui
con voce abbondante [...]
Tu,
gagliardo in un anfiteatro di apoteosi [...]
Tu,
col nome più amato sulle labbra [...]
Tu e la madre
che piange col cuore di colomba [...]
Tu,
con le gemme nel petto [...].
Tornando alla struttura binaria della raccolta, si può individuare una terza ed ultima opposizione semantica, quella tra passato e presente. La tensione tra le due temporalità rimane costante lungo tutto il Carme. La dimostrazione che non vi sia alcuna prevalenza dell’una sull’altra è data, a livello formale, dall’eguale misura in cui sono presenti termini riconducibili a ciascuna delle due sfere di significato. Se, dunque, il lemma “ieri” è iterato per cinque volte, gli elementi deittici relativi al tempo corrente (“oggi” e “ora”) si ripetono in altrettante occasioni. Il punto di separazione tra i due tempi è segnato dalla scomparsa del giovane Achille. Appare evidente, dunque, come all’epoca che precede l’infausto evento siano legate immagini di serenità e gioia, mentre la realtà attuale è dominata da un’atmosfera di solitudine e desolazione:
ora che la suprema Arpia
reca il simbolo pieno dell’Orsa solitaria
che attraversa spazi indistinti
nel silenzio (II).
Ora
il coro dei viandanti
chiude il terrazzo dei sepolcri
nella bruma di febbraio (III).
Nella quinta lirica accanto “alla memoria di ieri e di oggi” appare per la prima volta il “ricordo di domani”. Questo terzo elemento si inserisce nel discorso poetico come chiave di una rassegnata apertura al futuro. Un futuro che è possibile affrontare soltanto
con gli occhi puntati sul ricordo
che ci cambia la vita.
In merito alla triplicità temporale presente nell’opera, si può a mio parere attuare anche un altro tipo di lettura. I tre piani rendono, infatti, la complessità di un’esistenza in cui il sentimento del tempo si confronta con l’eternità. Si pensi, ad esempio, ai versi iniziali:
Retaggi quotidiani
e durevoli in cima alla torre della piazza (I).
La scena qui descritta è quotidiana, dunque comune e contingente, ma inserita in un contesto durevole, perpetuo, con il quale stride. Il problema della temporalità si riflette anche sul piano morfologico. È facile notare, infatti, come Futia si avvalga quasi esclusivamente di due tempi verbali: il presente ed il futuro. Nel primo si collocano la sofferenza ed il tormento. Il secondo predice l’accettazione del dolore attraverso l’unica consolazione possibile, quella offerta dal perdurare della memoria.
Particolare importanza assumono, all’interno della raccolta, i rimandi ai valori sensoriali. Il Carme è, infatti, costruito su un gioco di suggestioni foniche e cromatiche. Alla sfera visiva attengono termini quali: “splendenti”, “vermiglio” “verdeggiante”, “colore”, “bagliore”, “luce”, “ombra”. Il senso dell’udito è, invece, sollecitato da vocaboli come: “parola”, “silenzio”, “risuonare”, “coro”, “rumore”, “brusio”, “scampanio”, “canto”, “gorgheggianti”, “urlo”, “sussurro”. Vi sono, infine, dei brevi richiami olfattivi in parole come “odore” e “profumo”.
A livello prosodico, emerge il senso di musicalità dato dal combinarsi di simmetrie ritmico-sintattiche. Si pensi, ad esempio, al parallelismo sintattico sul quale è costruita la seconda strofa della quarta lirica:
Le parole del vespro
danno un altro senso alle cose,
nuovi campi al seminatore,
inalterata luce alla fiaccola,
e l’inattesa immagine al volto.
Altrettanto emblematica è l’anafora con cui si chiude lo stesso componimento:
un po’ tempo
un po’ scherno fraterno
un po’ gioco d’affetti
un po’ dolceamaro rimando
a proverbi familiari
e a notti che raccontano l’amore.
Infine, su un piano più propriamente figurativo, non si possono trascurare le suggestioni di antichi racconti mitologici. Si pensi, ad esempio, al padre
impavido nelle acque dello Stige
a rammemorare virtù
senza una sola macchia giusta (VI).
Quelle acque velenose per gli uomini - nelle quali già un altro Achille era stato immerso dalla madre che voleva renderlo invulnerabile - divengono qui scenario di una sfida, della lotta del vegliardo per il trionfo della memoria.
In conclusione, nel suo Carme, Rocco Futia riesce a fondere espedienti stilistici, competenze letterarie e tematiche profonde e delicate in un’opera che, più che alla ragione, parla ai sentimenti del lettore.
Sabrina Costanzo
Università di Palermo